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Recensione: Katatonia “Dead End Kings”

Katatonia “Dead End Kings”

(Peaceville/Audioglobe)

Per Chi Ascolta: si autoflagelli chi non li conosce!

Ma ve le ricordate le faccine di Blackheim e soci all’epoca di “Dance of December Souls”? Una via di mezzo tra giovanili impeti di ingenuità testosteronica ed espressioni glaciali di nostalgico mal di vivere. Fossi in loro, ripercorrerei costantemente – con orgoglio! – la strada che da quell’album li ha portati sino al nuovo “Dead End Kings”. Perché di catatonico, a differenza di quanto ci vuole far credere il monicker, c’è ben poco in un percorso contraddistinto dall’ispirazione, dalla timida passione nel dare un abito musicale alla propria malinconia, dal coraggio. La temeraria audacia di passare, nel giro di un paio di anni, dal doom/death lancinante di quella meraviglia da batticuore intitolata “Brave Murder Day” al dark anni ’80 di “Discouraged Ones”, scostante e gelido come una notte invernale di Stoccolma. Lo sconforto e lo smarrimento segnano da anni la voce candida di Jonas Renkse, il purgatorio fragile, dolce di chi sa tratteggiare nell’arte sonora - con pastelli a tinte pulsanti - la propria sensibile capacità di decifrare il senso di insoddisfazione esistenziale. Ogni album dei Katatonia stringe gelosamente a sé la genuina attitudine dell’interpretazione emotiva, secondo un canovaccio lineare ma, al tempo stesso, felicemente rinnovato: le interminabili ore notturne di “Tonight’s Decision”, lo schivo flavour quasi pop di “Last Fair Deal Gone Down”, la lite angosciosa contro i propri demoni di “Viva Emptiness” e “The Great Cold Distance”, sino alla caligine nebbiosissima di “Night Is The New Day”. A differenza dei cugini Opeth, smarritisi tra le sterpaglie di un prog rock stucchevole la cui stitichezza compositiva necessiterebbe di un considerevole quantitativo di Guttalax, i Katatonia formato 2012 dosano saggiamente la conferma con l’inedito. “Dead End Kings”, infatti, non si scosta – da un punto di vista prettamente musicale – dal suo predecessore; tuttavia, ne modifica considerevolmente il mood emotivo. Meno tinte radicalmente dark, più color ghiaccio. Le undici canzoni del platter smorzano la rabbia metallica nella catarsi del sole che si appisola dietro i monti, invitano la voce di Renkse, a tratti quasi cantautorale, a prendere per mano le chitarre frementi di Nyström. Ci ritroviamo, pertanto, tra le mani un disco piuttosto uniforme, melodico e intimo secondo le corde della band. Chi è cresciuto insieme a loro non potrà non provare un attimo di commozione quando un riff di chitarra malinconicissimo smorza il teso, drammatico incedere di “The Parting”, opener di “Dead End Kings” e sicuro nuovo classico dei Katatonia, per impeto, dolcezza e trasporto. Meno influenze tooliane (evidenti nella sola variegata, chiaroscurale “Dead Letters”) e meno metal tout court: le coordinate sonore – compatte e omogenee, a volte fin troppo – si muovono dentro un contenitore di suoni (post) dark rock, il cui preponderante obiettivo è l’armonia vocale vincente, la semplicità nostalgica che si specchia all’interno di immagini semi-acustiche, di atmosfere in grado di emozionare l’ascoltatore senza orpelli di troppo. E il resto può star in disparte. Questo sembra l’interesse primo degli attuali Katatonia, come dimostra magistralmente “Hypnone”, cartolina d’inverno dipinta dai riff glaciali delle chitarre e cullata da incantevoli mestizie vocali. È il grigio, color predominante nel solito splendido artwork di Travis Smith, il tema cromatico di questa nuova fatica discografica: cieli plumbei sovrastano “Lethean”, archetipo sonoro della carriera della band svedese, e “The One You Are Looking For Is Not Here”, in cui il cameo della brava Silje Wergeland, attuale singer dei The Gathering, è – a dire il vero – niente più che un’erbetta aromatica aggiunta. La marcia in più a “Dead End Kings” viene data dalle due ballate della tracklist: “The Racing Heart”, voce sofferente su un tappeto di keyboards e improvviso ingresso delle chitarre elettriche per uno di quei brani che trasuda dolcezza pura e trasparente, e “Leech”, sfumature oniriche da night club con addosso la giacca a vento della dark music d’altri tempi. Scotch nel bicchiere, scheletri danzanti e nuvole in viaggio. Sicuramente il nuovo platter dei Katatonia si guarda bene dall’avventurarsi in territori inediti, proteggendosi - tutto il tempo della sua durata - tra i capitoli passati della storia discografica della band. Ma tale inerzia innovativa è controbilanciata dalla bellezza effettiva, senza fronzoli delle canzoni. Sembra quasi che Renkse e soci abbiano voluto celebrare se stessi. E ne hanno tutte le ragioni perché, dopo oltre venti anni di carriera, il logo Katatonia luccica ancora di struggente, dolce, empatica malinconia musicale.


 

Momento D'Estasi: Il riff finale di “The Parting” è la summa del Katatonia sound

Colpo Di Sonno: Un disco molto, forse troppo, uniforme